“Cari ragazzi, adesso il papà e la mamma vi raccontano che cosa è stato il coronavirus”. Quali parole seguiranno, fra qualche decennio, a questa frase iniziale, quando coloro che in questi giorni sono bambini e adolescenti vorranno raccontare questa emergenza ai loro figli? Si parlerà della paura, si parlerà purtroppo dei tanti morti, si parlerà delle misure sanitarie: ma purtroppo non si potrà dire che i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze siano stati il centro dell’attenzione degli adulti. Se si potesse usare la parola “vittima” senza offendere coloro che hanno perso la vita in queste settimane, potremmo dire che l’infanzia e l’adolescenza sono state veramente vittime innocenti di un paese che ha ancora una volta dimostrato di non possedere una cultura della fascia 0-18, per non parlare della fascia 0-6; quasi 5 milioni di piccoli cittadini, di cittadini di oggi non di cittadini del futuro, ignorati, trascurati, fatti scomparire come da un prestigiatore in una fiera di paese.

Una delle frasi più sconcertanti che si siano sentite in questi giorni è stata: “nelle situazioni di emergenza i bambini vanno trattati esattamente come gli adulti”. Una volta si diceva “prima le donne e bambini”, quando si parlava di naufragi, magari in certi film sul Titanic; oggi, nemmeno quello. Non solo si chiede ai bambini di sacrificarsi, di restare in casa, di rinunciare al diritto al gioco all’aperto, ma quasi ci si offende se qualcuno per loro e dando loro la voce si permette di sottolineare perlomeno l’importanza di questo sacrificio e le ferite che lascerà in futuro.

“In fin dei conti si tratta solo di due o tre mesi ”: come se non si sapesse che per i bambini il tempo si misura in forme diverse rispetto agli adulti, che una settimana di attesa a sette anni dura un’eternità, che tre mesi per un preadolescente significano il passaggio da una fase della vita all’altra, da un mondo all’altro. Ragazzi che avevano appena imparato ad uscire di casa portandosi le chiavi sono stati costretti a rimanere in casa, per una misura che non mettiamo minimamente in discussione, ma il cui impatto sui ragazzi sui bambini non viene ancora seriamente preso in considerazione. Una ferita va medicata, forse si provocherà un po’ di bruciore, ma qui si sta togliendo anche i bambini il diritto di lamentarsi, di piangere , di dire che sarebbe stato meglio se la ferita non si fosse verificata.

E dopò? Torneranno a sporcarsi, i nostri bambini? Torneranno a baciarsi sulla bocca? Torneremo ad accettare il rischio dell educazione , che non è il pericolo di esporre i bambini al coronavirus ma è il necessario bilanciamento tra le esigenze di sicurezza e imprevedibilità della vita , che ciò a cui noi dovremmo educare i nostri ragazzi?

E del resto, di cosa stupirsi? Un paese che ha sempre brillato per l’assenza totale di qualunque serio piano educativo globale per i minori, un paese per il quale l’educazione e le politiche socio educative sono sempre stata il fanalino di coda, come potrebbe risvegliarsi in una situazione di emergenza?  Dopo il coronavirus di educatori forse saranno un po’ più soli; ma ancora più convinti, ancora più tenacemente decisi a salvare l’infanzia l’adolescenza, ad occuparsi dei bambini e delle bambine, a contrapporre all’egoismo adulto il tenero approccio verso chi sta crescendo, e che non può essere sempre costretto a pagare il prezzo degli errori dei cosiddetti “grandi”.

 

Contributo inedito di Raffaele Mantegazza

Docente di Scienze umane e pedagogiche
Dipartimento di Medicina e Chirurgia
Università di Milano-Bicocca